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La malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer fu descritta per la prima volta nel 1906 da Alois Alzheimer, neuropsichiatra tedesco, in una donna di 51 anni che presentava perdita della memoria, cambiamento del carattere, delirio di gelosia, incapacità a provvedere alle cure domestiche. Fino agli anni '70 si ritenne che la malattia potesse colpire solo le persone al di sotto dei 65 anni : si parlò quindi di "demenza presenile" . Solo negli ultimi decenni si è accertato che la malattia di A. non è esclusiva dell’età presenile, ma anzi è tanto più frequente quanto più aumenta l’età. Nelle persone che hanno superato i 65 anni la frequenza complessiva (prevalenza) è circa del 7%, negli 80enni del 30% circa. Questa caratteristica della m. di A., unita al costante aumento del numero di anziani tipico della nostra epoca, rende ragione della grande espansione della malattia.

La m. di A. è la forma più frequente di demenza, intendendo con questo termine quel gruppo di malattie caratterizzate da un progressivo declino della memoria e di altre funzioni cognitive, tale da interferire con le attività della vita.
Oggi si ritiene che i nuovi casi di demenza nel nostro paese siano circa 150mila/anno: poiché la m. di A. costituisce almeno il 50% di tutte le forme di demenza, i nuovi malati in un anno in Italia saranno 70mila. Attualmente sono circa 600mila. Nella maggioranza dei casi sono curati a casa.

La m. di A. colpisce le cellule del sistema nervoso centrale. E’ caratterizzata dalla morte di cellule celebrali, particolarmente in quelle aree del cervello deputate alla memoria e alle altre funzioni cognitive. Nelle ultime fasi della malattia la progressiva povertà cellulare si traduce macroscopicamente in atrofia della corteccia cerebrale, cioè in un assottigliamento del tessuto cerebrale visibile anche alla TAC e alla Risonanza Magnetica.
La m. di A. è nella stragrande maggioranza dei casi sporadica, cioè non ereditaria. In una piccola percentuale (meno del 5%) è invece ereditaria. Non è nota la causa della forma sporadica, la più comune: si ritiene che fattori ambientali (a tutt’oggi ignoti) interagiscano con una predisposizione genetica, determinando la malattia.
La m. di A. inizia in maniera subdola e insidiosa, tanto che spesso nemmeno i familiari si accorgono del suo apparire. I primi sintomi sono solitamente piccoli disturbi della memoria, spesso associati a sintomi di tipo depressivo e ansioso. La malattia all’esordio può essere male interpretata e diagnosticata come un disturbo depressivo. E’ ancora forte, inoltre, l’opinione che la perdita di memoria sia “normale” nei vecchi: questa errata opinione può essere fuorviante e ritardare la diagnosi.

L'evoluzione della malattia può essere suddivisa, con molta approssimazione, in tre fasi.
La prima è caratterizzata da una leggera perdita della memoria e da una progressiva incapacità di imparare nuovi concetti e nuove tecniche, nonché da difficoltà a esprimersi e a comprendere. Nel malato si notano modificazioni del carattere e della personalità, difficoltà nei rapporti con il mondo esterno, diminuzione delle capacità percettive visuo-spaziali.

Si può notare una difficoltà sempre maggiore nell'emettere giudizi, incertezza nei calcoli matematici e nei ragionamenti che richiedono una certa logica. Sono spesso presenti ansia, depressione e ritiro sociale.
In una fase successiva le caratteristiche del malato di Alzheimer sono quelle date dal peggioramento delle difficoltà già presenti: come conseguenza le azioni della vita quotidiana diventano, per il malato, molto problematiche. La progressiva perdita di memoria spiega la maggior parte delle difficoltà che il malato si trova a dover affrontare ogni giorno: la mancanza di memoria autobiografica, e quella relativa alle attività manuali più comuni, rendono il paziente perennemente insicuro e incerto. I disturbi del linguaggio accompagnano quelli della memoria e il malato perde anche la capacità di comprendere le parole e le frasi, di leggere e di scrivere. Il peggioramento delle capacità visuo-spaziali porta il malato a perdersi sui percorsi conosciuti, a non impararne di nuovi, a non orientarsi nemmeno tra le mura di casa; la capacità di riconoscere le facce e i luoghi viene progressivamente perduta.

La cosiddetta terza fase è caratterizzata da una completa dipendenza dagli altri. Le funzioni intellettive sono gravemente compromesse; compaiono difficoltà nel camminare, rigidità degli arti, incontinenza urinaria e fecale; possono verificarsi crisi epilettiche; le espressioni verbali sono ridotte a ripetizioni di parole dette da altri, o ripetizione continua di suoni o gemiti, o addirittura mutismo. Possono manifestarsi comportamenti "infantili", come portare ogni cosa alla bocca o afferrare qualunque oggetto sia a portata di mano. Spesso il malato si riduce all'immobilità, e la continua costrizione al letto può fare insorgere piaghe da decubito, infezioni respiratorie, urinarie, sistemiche, oltre che contratture muscolari.

Lungo tutto il decorso della malattia, ma soprattutto nelle prime due fasi, sono presenti anche sintomi cosiddetti “non cognitivi”, in varia misura e di diversa gravità: agitazione, irrequietezza, aggressività, ansia, depressione, disinibizione sessuale, apatia, disturbi del sonno; inoltre possono manifestarsi alterazioni del comportamento alimentare (bulimia o anoressia) e disturbi del cammino (aumento patologico dell’attività motoria).
La durata media della malattia è stimata tra gli 8 e i 14 anni.
E’ difficile da definire, perché l’esordio è lento e insidioso, e la diagnosi spesso tardiva. Inoltre, il decorso della malattia è molto influenzato dallo “stile di cura”, sia formale (personale professionista) sia informale (i famigliari). La durata della fase ultima della malattia dipende in maniera drammatica dal “nursing” (igiene, alimentazione, idratazione), potendo durare anche molti anni.

La diagnosi della malattia è possibile anche nella fase precoce della malattia, quando cioè si manifestano i primi sintomi. Una diagnosi tempestiva è estremamente importante: per informare in modo corretto e completo i familiari; per programmare gli interventi assistenziali; per distinguere la m. di Alzheimer da altre forme di demenza; per impostare al più presto il trattamento farmacologico.